“L’affare Equitalia in Sardegna: le motivazioni di una lotta”

“L’affare Equitalia in Sardegna: le motivazioni di una lotta”

Premessa
La Sardegna è una delle regioni italiane in cui la crisi ha lasciato l’impronta più grave, con esiti catastrofici nel tasso di disoccupazione, che oggi arriva al 13,3%, secondo solo alla Sicilia, contro la media nazionale dell’8%. La situazione di emergenza è sfociata con particolare forza negli ultimi anni, in movimenti di protesta che coinvolgono i più ampi settori produttivi: dal settore pubblico, in cui emerge con particolare rilevanza il licenziamento di migliaia di precari della scuola, al privato in cui la crisi produttiva ha colpito soprattutto le piccole realtà imprenditoriali, diminuendone il volume di affari e comportandone spesso la chiusura o il ridimensionamento. Persino il settore più tradizionale e rappresentativo della Regione, quello agro pastorale, da sempre restio alla piazza, ha chiesto ad alta voce una presa di posizione da parte delle istituzioni sarde, di fronte a quello che appare un tracollo in piena regola di qualsiasi attività produttiva autonoma.
La Regione Sardegna, ha fino ad ora risposto all’emergenza in maniera blanda e disinteressata, limitandosi, nella maggioranza dei casi, ad avanzare timide promesse o provvedimenti di emergenza, senza mai impegnarsi in una politica di trattative con il governo centrale, atte a dare forza e vigore alle rivendicazioni dei lavoratori, fingendo di ignorare il diritto, esplicitato nell’articolo 51 dello Statuto Autonomo Regionale, che rende il Consiglio Regionale, espressione del popolo sardo, in grado di potersi opporre a provvedimenti economici nazionali manifestamente dannosi per l’Isola.

Le motivazioni della protesta contro Equitalia

Ad aggravare il quadro di impoverimento generale della popolazione e in particolare dei lavoratori autonomi falcidiati dalla crisi economica, si è aggiunto paradossalmente lo stesso Stato Italiano. Il mostro bipartisan di Equitalia, ha iniziato ormai da anni a mietere vittime soprattutto tra i lavoratori autonomi, i piccoli/medi imprenditori sardi che attraversano un periodo di particolare crisi produttiva. Si tratta di artigiani, commercianti, agricoltori, pastori, liberi professionisti, lavoratori autonomi. In sintesi, della realtà produttiva patrimonio della nostra regione, della nostra gente. Sono più di settantamila imprese, che non riuscendo a far fronte ai debiti contratti da Equitalia, si trovano a dover fronteggiare un debito previsto di 4,27 miliardi di euro. La Sardegna è una delle regioni più colpite dalle esose richieste di Equitalia, con un 25% di incassi rispetto al 12,5% della media nazionale.
Molti dei cittadini, messi al corrente del problema spesso in maniera parziale e scorretta dagli organi di informazione, tendono a liquidare le rivendicazione di questa ingente massa di lavoratori, circa il 40% degli autonomi, come composta totalmente da evasori fiscali, da furbi che meritano una punizione severa. La realtà, rispetto a questo luogo comune, è molto più complessa e va spiegata in termini facilmente comprensibili.
La crisi economica abbattutasi sulle aziende sarde, ha contratto in maniera determinante il volume degli affari e delle entrate, mettendo molto spesso i lavoratori nell’impossibilità di far fronte tempestivamente ai pagamenti fiscali. Quando questo si verifica, entra in scena Equitalia: un istituto statale con statuto di Spa, appartenente per il 51% all’ufficio delle Entrate e per il 49% all’Inps, diretto da un general manager, Gianluigi Giuliano, pagato da noi contribuenti lautamente. Il suo consiglio di amministrazione è lottizzato dai maggiori partiti di ogni orientamento, aspetto che rende palese la strenua difesa dell’ente da parte di tutte le forze politiche, nonostante la dubbia legalità del suo statuto e del suo agire. Equitalia opera nei casi di criticità in maniera implacabile. Sebbene venga data ipocritamente la possibilità di sanare le proprie pendenze con una rateizzazione, gli interessi lievitano anche con il trascorrere di poco tempo, fino a tassi quasi di usura. Anche un ritardo di un solo giorno può comportare, a seconda dell’importo dovuto, 200 euro di sanzione. I lavoratori sono costretti così a cessare di investire nell’azienda e nel lavoro, nell’urgenza di far fronte a somme che accumulandosi assumono dimensioni astronomiche. Nel caso sfortunato e sempre più frequente in cui il debito diventi irrimediabilmente insolvibile lo Stato, usufruendo di un’agenzia privata che incassa il 9% dell’esproprio, procede alla confisca del bene che viene messo all’asta per una cifra del tutto esigua. Recentemente, lo Stato ha adoperato nell’esecuzione degli espropri, mezzi e schieramenti ingenti, in maniera terroristica e intimidatoria e comunque lesiva della dignità umana. A questo si aggiunge il fatto che lo Stato non comunica ai cittadini la messa in asta dei beni pignorati. Questi sono costretti a controllare ogni giorno la condizione del loro bene per non farselo sfilare sotto il naso e possono impedire che la loro proprietà venga svalutata solo esibendo una perizia in tribunale, ovviamente a pagamento. In genere gli speculatori fanno in modo di mandare a vuoto le prime aste, in maniera da poter acquistare a un prezzo infimo. In un primo momento gli espropri riguardano i mezzi utilizzati nel lavoro, in seguito si passa alle ipoteche sui beni patrimoniali. Il primo atto compiuto dallo Stato è quindi quello di privare le aziende in difficoltà dei loro mezzi produttivi, privandole in partenza degli strumenti per estinguere il debito. In seguito si passa alle proprietà, che vengono strappate ai legittimi proprietari, e così muore un’azienda, intere famiglie restano per strada.
La maggior parte delle persone potrà pensare che questo meccanismo, sebbene ingiusto, sia indispensabile per dare ossigeno alle casse dello Stato. Non è così.
Lo Stato non incassa la cifra dovuta, ma nel frattempo lascia delle realtà produttive in mano a speculatori noti, con il grosso rischio di ingrassare gli interessi della malavita e meccanismi di evasione fiscale di dimensioni molto più ampie e meno controllabili. Gli immobili oggetto dei sequestri, in balia di speculatori senza scrupoli, vengono molto spesso battuti all’asta a una cifra ben al di sotto del debito. Lo Stato, inoltre, provvede a sue spese alle operazioni di sequestro, spendendo delle cifre rilevanti. Gli unici a guadagnare da Equitalia sono coloro che si giovano del sistema in maniera parassitaria. Gli espropri brutali e selvaggi hanno ridotto la Sardegna a una terra di rapina. Nella nostra terra vengono persino calpestati i diritti matrimoniali e patrimoniali a favore delle donne che si vedono espropriare beni di cui detengono la metà, in barba alle convenzioni europee e al diritto di famiglia. I contributi a fondo perduto della Regione Sardegna, vanno così ad ingrassare le banche. A queste si uniscono altre procedure ugualmente astruse e intollerabili, un esempio per tutte: le tasse da versare allo Stato devono essere pagate per il 95% in anticipo di un anno, senza tenere in minima considerazione che la mole dei guadagni dichiarati per l’anno successivo può diminuire notevolmente. Pur non essendo certi di avere lo stesso volume di affari per l’anno successivo, i lavoratori sono costretti ad anticipare al fisco dei soldi che potrebbero essere destinati al miglioramento delle loro aziende. Ciò accade, anche se in misura notevolmente minore, anche per i lavoratori dipendenti. Nessuno potrebbe essere in grado di motivare l’utilità pubblica di questo sistema, che non porta nessun guadagno allo Stato, ma anzi lo impoverisce e rende indispensabili delle spese future per far fronte ai costi sociali di questa politica.
Perché la battaglia contro Equitalia è una lotta per la civiltà e non per il ladrocinio

Perché la regione Sardegna ha il diritto e il dovere di difendere le proprie realtà produttive e il benessere del suo popolo, stabilendo dei meccanismi di riscossione fiscale che abbiano alla base dei criteri di giustizia e di sostenibilità.
Perché l’insolvenza di un debito non autorizza lo Stato a esigere aggi, more, sovrattasse, che arrivino a incrementare la cifra iniziale anche del 300%.
Perché i comitati Antiequitalia non hanno in nessuna circostanza chiesto di essere sottratti al pagamento delle cifre dovute, ma semplicemente di poter assolvere il proprio dovere di cittadini in modo equo e costruttivo per le proprie aziende, e di conseguenza per lo Stato.
Perché lo Stato, impegnato tramite terzi in costose azioni coercitive, svende la proprietà dei cittadini, rinunciando spesso ad incassare la cifra dovuta e innescando una politica antieconomica per le sue stesse finanze.
Perché le politiche rivolte allo sviluppo dell’economia e dell’imprenditorialità risultano inutili e dannose se non accompagnate da un adeguato trattamento dei lavoratori autonomi in ambito fiscale.
Perché la creazione di nuove sacche di povertà, che si esplicitano in varie forme di disagio economico e sociale, portano forzosamente a un impoverimento delle risorse materiali e morali dei cittadini. Gli esiti di questo processo assumono dimensioni colossali, in quanto le piccole e medie imprese costituiscono il nucleo fondamentale delle risorse statali.

Feminas de su populu sardu

L’immagine simbolo di queste giornate di presidio permanente in Piazzale Trento contro Equitalia è stata incarnata dalle donne sarde in digiuno per chiedere una moratoria delle cartelle esattoriali. Alcuni si potranno domandare come mai, per attuare una forma di protesta che riguarda un ambito che viene identificato correntemente con il mondo maschile, siano state le donne ad attuare la forma di protesta più radicale.
La donna ha da sempre rappresentato l’anello forte della famiglia, colei che riesce a tenerla insieme nei momenti crisi, a sorreggere l’uomo che a maggior fatica sopporta la perdita del suo ruolo di sostentatore economico. E’ colei che, molto spesso, nell’emergenza si rimbocca le maniche e trova un lavoro in quel settore che oggi è in crescita e che accoglie per lo più il sesso femminile. Parliamo dei mestieri di cura o il settore delle pulizie. Le donne riescono ad affrontare con forza, anche quello che può essere considerato un declassamento sociale.
Il fallimento economico trascina con sé degli effetti distruttivi nei nuclei familiari che si spingono, purtroppo sempre più spesso, fino a gesti di disperazione estrema. Il sentimento più forte è quello di vergogna, di fronte a una società che getta discredito nei confronti di chi non riesce ad aumentare o per lo meno a mantenere il proprio status economico. Eppure, la povertà avanza, spesso nascosta ai figli che vivono un mondo che li deresponsabilizza, abituati a nutrirsi di una prosperità dovuta e non legata al grande sforzo compiuto dai loro genitori.
Quando si parla della crisi del lavoro autonomo sardo, ci si riferisce non solo a coloro che hanno il coraggio e la forza di protestare a viso aperto, ma a una depressione endemica, che interessa fasce salariali molto più vicine al proletariato che all’imprenditoria.
Le donne sono coloro che maggiormente accusano questa crisi, che le porta spesso a compiere gravi rinunce nella loro vita affettiva e nella partecipazione sociale. Una lavoratrice autonoma, ad esempio, non può avere accesso all’assegno di maternità, se la sua azienda non gode di grande prosperità. Le lavoratrici autonome, infatti, possono accedere a un assegno di maternità solo se perfettamente in regola nel pagamento dei contributi. L’assegno, di circa settecento euro, validi per cinque mesi, incrementa il reddito di impresa. Questa stortura fa sì che una donna, assente dal lavoro per maternità debba pagare più tasse allo Stato. Va da sé che la maggior parte, decida di non usufruire dell’assegno o ne rimanga esclusa, continuando a lavorare fino al parto e obbligandosi a crescere il proprio figlio nello stesso ambiente di lavoro, non certamente nelle condizioni ambientali adeguate. Anche una lavoratrice dipendente, non può permettersi di generare un figlio se non a costo del licenziamento. E dopo la perdita del lavoro diventa difficile trovare di nuovo un mestiere che tenga in conto le professionalità accumulate negli anni. Molte finiscono con il rassegnarsi, fare le mamme a tempo pieno, raccontandosi la bugia di essere felici così. Del resto, gli asili nido sono pochi, e costano cari. Spesso si parla di una Sardegna che non genera più dei figli, di rado delle motivazioni che stanno alla base di questo. Così come pochi si sono chiesti come mai tante donne e uomini vedano oggi la propria abitazione scivolargli via, anni di fatica e di lavoro, e si ritrovino molto spesso nell’isolamento e nella solitudine.
A digiunare in piazzale Trento ci sono donne che hanno saputo convertire la propria rabbia in una protesta ferma e determinata, per reclamare il nostro diritto ancestrale alla terra. Impossibile non ascoltarle, perché la loro protesta necessita giustizia. Le donne sarde vogliono pagare le tasse, perché dare il proprio contributo alla crescita dello Stato significa avere accesso ai servizi e agli ammortizzatori sociali, alla sanità pubblica, avere dei figli istruiti in istituzioni scolastiche di qualità. Quegli stessi figli che un tempo venivano considerati braccia per il lavoro e che, di questo passo, torneranno ad essere questo. Oppure saranno costretti ad andarsene. Le donne di piazzale Trento sono riuscite a coinvolgere quella generazione di giovani che ignorava totalmente la realtà che affligge la nostra terra. Questi giovani si applicano ora con serietà e impegno, affamati di conoscere una problematica di cui non sono stati investiti, ma che potrebbe riguardare un domani loro stessi e le loro famiglie. Hanno richiesto che il mondo del lavoro entrasse a scuola, nelle Assemblee di Istituto in cui le donne sono state invitate. E ancora oggi gli studenti vanno a trovarle e ad aiutarle, gli operai a dare una carezza, perché le nostre donne che non mangiano più rappresentano un popolo stanco di subire vessazioni, stanco di lavorare prima per poco e poi per niente. E’ tempo che tutti i lavoratori e le lavoratrici si uniscano a loro.

Presidio Piazzale Trento – Consulta dei Movimenti

Pubblicato da piazzaletrento

La voce del Presidio

Una risposta a ““L’affare Equitalia in Sardegna: le motivazioni di una lotta””

  1. Una riflessione profonda, sulla quale è sicuramente necessario soffermarsi – dobbiamo confrontarci senza perdere di vista i nostri obbiettivi – difendere i diritti della democrazia e salvaguardare la terra che ci ospita è un nostro dovere.

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